venerdì 14 giugno 2013

Malìa per Voi - Pantologia



Oltre l’antologia, che per sua natura patchwork incolla momenti staccati sul piano indefinibile degli allestitori, “Malìa per Voi” è un concerto, un ensemble, una jam session di artisti che quotidianamente vivono il rimbrotto della realtà e colgono l’occasione per unire il loro dolore al dolore del mondo, trasformandolo in felicità di essere, ora, qui, sempre. Le fotografie di Sergio Gabriele sono lo spunto, il tramite, il viatico per convogliare il fiume sotterraneo dei desideri infusi in un en plein air di corpi offesi che ritrovano vitalità e coraggio. Presenza. E le foto sono viatico di se stesse, così libere dal personale spasimo del discorso compiuto, che in questo caso si compie nelle parole di tutti. Parole. Anche da chi confessava di non esserne degno, ignorando che il proprio segno d’arte è parola comunque, sempre, e infatti proprio da questi artisti giungono altisonanti le rappresentazioni della Poesia stessa, nella sapienza fonetica di chi sa guardare, ascoltare. Sentire.

E così Daniela Cattani Rusich che si eleva a sguardo sull’Arte stessa, compiendone la definizione, madrina della convention e infatti a lei non è abbinata alcuna foto perché lei è tutte le foto. “Giustizia ha molti segni e un solo credo / la spada è più tagliente ad ogni grido / s'immola pura al cielo nel suo assolo / E l'Arte sia la fiamma, il solco, il volo”. Chi di parola ha fatto una ragione di vita. Maria Grazia Galatà: “allontanarsi / al tempo atteso / soffocando realtà / confusamente emerse”. Voler sopire una realtà che stenta, comunque, sempre. Maria Rita Orlando: “Siliceo sarcofago che mantiene sempiterna bellezza. Scruti, attendi cenno, che tarda a giungere. Un gesto, allora, estremo atto di devozione. Scatti, quasi, fissandone l’imago, a volerne rubare l’anima, a ingabbiarne memoria in pixel”. Essenza del virtuale, ricondotto ad enfasi reale di un dolore che per sopravvivere si fa immaginazione. Bianca Madeccia: “nel petto corridoi ampi e lunghi in cui imprigionare mari / espedienti che agiscono sulla materia per imporle la forma / di antichi naufragi e città disabitate che galleggiano / di quella luna che a un tratto si spaccò versando rose”. La luna che si spacca, in una emorragia di petali di rabbia. Silvia Rosa: “C’è stato tempo per una preghiera nascosta tra la sciarpa ruvida e il collo, quando il freddo di neve sembrava una ragnatela e troppe parole scivolavano contro i vetri scheggiati degli occhi, una pioggia di scuse per (non) essere sempre qualcuno che ti assomiglia?”. Domande accorate rivolte al vento del sé, alla propria cura dell’incuria. Irene Ester Leo: “E mentre conclusasi la melodia, la sala fu invasa da applausi di approvazione e compiacimento, un fremito attraversò con certezza l’aria. Un filo rosso si tese. Quei due forestieri si riconobbero, contro ogni logica possibile, in una serata di pieno inverno, dell’anno 1883, per uno strano destino. Mentre la neve fuori cadeva cauta sotto il canto della luna”. Quei due forestieri, che sfidano la conoscenza, nel libro dei sogni, e delle stelle. Mariella Soldo: “Cammino, cammino. Semafori, strisce bianche e ancora pioggia. Palazzi che vorrebbero sembrare grattacieli. Scuole che hanno dimenticato il sapere. I ragazzi? Si perdono nelle poche ore di libertà e non sanno come tornare indietro”. I ragazzi che non sanno tornare indietro, è un vertice assoluto di poesia, scuole che hanno dimenticato il sapere. Sylvia Pallaracci: “ecco, il respiro salubre d’aria / all’insorgere delle barricate / che franano. la notte si sguaina al rintrono stivato / e incide l’ascesso dei giorni / a mezz’ala”. Parola intagliata, vergata, nel petto divaricato dalle emozioni nude e violente di una realtà trattata con troppa benevolenza. Eufemismi di una felicità disperante. Donato Di Poce: “Non avrò paura e urlerò al mondo / Il mio dolore e l’amore infinito / Diventerò un uomo migliore / Per attraversare con onore / I confini della poesia”. L’urlo del silenzio, fatto di bisbigli, e nuvole enfie di libertà mancate. Gioia Marsi: “un vento / tramutò l’orgoglio in passione / e la tua sicumera in palpito / di memoria che non c’è / più”. Il disincanto per una parola troppo spesso chiama amore. Monica Frosio: “..di ogni colore la piega. Mentre osservo la lontananza dell’altro mi accorgo di averlo un attimo prima dell’accanto. È nebbia la mia luce, una nebbia amica che mitiga i confini con il conosciuto e il sogno”. Sublime precursione dell’accaduto attraverso la nebbia della propria luce. Poesia come immaginario evoluto. Loredana Semantica: “Ma il rimando al sangue non è solo verità animale della riproduzione, è anche verità che impressiona come la vista del sangue versato dalle ferite, segno di negazione della vita e portatore di dolore. E’ per questo che la statua ha corpo di femmina, ché dalle origini del mondo la donna porta il fardello segreto di un dolore indicibile”. Come celare la poesia nella prosa apparente di un platonico mondo delle idee, per vederla poi sfociare nel dolore indicibile della donna. Marinella Polidori: “So stare. In mezzo a mille costrizioni, libera. Sostare”. Epigrafe del medesimo dolore, fieramente scagliato sulle grate di una prigione che esiste solo per l’aguzzino e che ha il potere di rendere immenso l’orgoglio dell’identità. Anna Lauria: “Nel nome del corpo, del dolore e del costato / affranto / ti concedo e mi concedi il relitto trafitto / un silenzio di pace nei secoli invocato”. E’ il Dio degli abissi del tempo primario, di verità svelate nell’invocazione, e urlo nel silenzio di una costernazione che si fa pace, spiritualità del corpo. Rita Pacilio: “Lei piangeva ad occhi / asciutti, poi li ha rimessi in tasca, per nascondere il nervo / di donna”.

E chi della parola ha assunto il volto foto-grafico, millantando spesso una propria esclusione dal verbo scritto, in pieno possesso di quello intuito, che poi è scritto, come la legge. Maria Giulia Berardi: “Entrare in questa fotografia è per me spiare ricordi, è ritrovarmi in una giornata invernale e fredda della mia primavera”. Scritto, prima dell’inchiostro. Daniela Lorefice: “Mi intaglia come burro ogni suo bacio, / mi disarma come fuscello al vento / mi rende schiava dei nostri continui istanti di felicità / e libera di soffrire / come sempre avviene”. Come sempre avviene, nel coraggio del segno. Mauro Rea: “accata-stati / sopra / l’uno su l’altro / esposti al tempo e allo sguardo / tutto / che non rimane / che smalto di rabbia / anche”. Il lisergico appuntamento con il tempo disegnato all’infinito, che resta. Enza Miglietta: “questa e' la mia, la tua vita. / tutto e' semplice.. infinito, liquido.. lascia andare, / lascia scorrere come il fiume in piena, / lascia a me, a te, a noi / la parola delle note, della vita!”. La parola delle note, pazientemente incollata sul pentagramma del colore. Donatella Izzo: “Questa tensione così delicata seppur così viva e forte, produce una sublimazione dell’essere e dei suoi pensieri, ponendoci tutti in un momento di eterna attesa, di perenne sabato, avvolti dalla trasparente luminosità di un lume antico che ancora sa illuminarci”. Il perenne sabato, atteso nel vissuto preconizzato, quindi già svolto, come il tema dell’assoluto esistere. Margherita Levo Rosenberg: “La signora continua a parlare mentre i ricordi si affollano nella mia testa e il dolore mi attanaglia la gola con una violenza che mi toglie il respiro; devo scappare, correre fuori ad esplodere il pianto trattenuto per quarant’anni”. Il momento grafico esistenziale, contemporaneo come il redigere la memoria, che è sempre contemporanea. Loredana Rea: “Frammento strappato all’inarrestabilità dell’esistenza, che conserva l’inconfondibile sapore del farsi delle emozioni, per restituire una poesia sottile, fragile, stordita dal rumore incalzante di una vita che sembra sfuggire sempre”. La critica emozionale, prefazione dell’energia saputa e rinnovata ad ogni sguardo sull’altrui che si fa proprio respiro. Patrizia Bertelli: “ aspettando il mio rinascimento che non c'è e sbriciolando il mio essere come il bicchiere vuoto di cristallo che tengo troppo stretto fra le mani e che mi ferisce le dita sanguinandole. Mi affaccio alla finestra della mia anima. E ti aspetto, in questi istanti lunghi un ergastolo”. Tempo refluo di una attesa che si fa mistica, per il suo coraggio di porsi ancora come traguardo, laddove è, forma compiuta. Bruno La Pietra: “eppure quello sguardo torvo, ora all’improvviso / mi riempiva le tasche del cappotto, / ora quello sguardo mi impediva di tornare veramente / da dove ero venuto”. Finalmente il ritorno, della parola amica, che diviene sogno acquisito, coscienza di una separazione fra detto e fatto che impedisce all’uomo di vincere sull’ignoranza. Rosita Delfino: “Un taglio particolare che valorizza i dettagli, in ogni donna vive una dea che con la sua esuberanza la rende unica. Cromie delicate che mettono in risalto particolari femminili, che suscitano emotività e spiritualità senza mortificare la donna in pose scontate e plastiche”. Genesi di una fotografia, nel pensiero vigile che anima l’inquadratura, definisce il contorno di uno spazio infinito, debordante dallo scatto al prima del futuro plastico. Miriam Ravasio: “Rosso di scena invece per l’azione invisibile (l’essere non c’è) che colpisce l’immaginario e seducendo induce l’appetibile all’acquisto. Il vasto intrigo che avvolge e scopre il nudo delle nostre qualità”. Linea di confine fra la vanità dell’esistere, vacua menzogna, e la qualità come condivisione, e nulla più. Patrizia Cau: “in quel bicchiere quel vino con quel profumo molto caratteristico che spazia nella sua franchezza dal fruttato intenso in gioventù, allo speziato, all'erbaceo, alla confettura di prugne”. Odori e sapori che la fotografia apparentemente fissa in cristalli rifrangenti e che invece sono corredo del soggetto e della sola capacità di ascoltarlo anche quando cambia posa. Romina Dughero: “Rosso che brucia pelle già fredda / accanto l'angelo aspetta la mia / bocca”. Canto infinito della propria sostanza intima, universale, che ancora una volta fa dell’attesa un fotogramma, trave portante delle conseguenze indissolubili. Veronica Bronzetti: “è lieve il passo nel cammino dei sensi / nella rossa nebbia delle attese / due vie, due direzioni, una per la vita / perché migra il desiderio, ma sempre torna a quella bocca”.

E’ una grande, enorme poesia, perché di tanti respiri che si fanno uno, e i versi finali sono di due poetesse fotografe, Romina Dughero e Veronica Bronzetti che ignare fra di loro si sono unite nella parola “bocca”, sempiterna, che ci permette di esprimerci, mangiare, essere tristi e felici, baciare, amare. Parlare.


Migranze E-edition: “Malìa per Voi”

http://www.issuu.com/migranze/docs/sergio_gabriele_malia_per_voi






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