martedì 26 febbraio 2013

Virginia




Quando scrivo non sono che una sensibilità.  A volte mi piace essere Virginia, ma solo quando sono sparsa, varia e gregaria.
Virginia Woolf, Diario di una scrittrice, 22 agosto 1922



mercoledì 20 febbraio 2013

magia della parola


Manoscritto autografato dell'Ulisse 
(sezione II Odissea. episodio 15 Circe)


L'edizione del 1935 con illustrazioni di Matisse


(il mio omaggio al XV episodio)

Mezzanotte circa.

Dietro la Custom House, a Dublino, in Mabbot street, c'è la zona dei bordelli. Richiami inequivocabili.
Vertigini di Stephen, che si ferma improvvisamente. Parla. Ma a parlare è il suo inconscio. E Joyce così introduce Stephen che parla - "La stanza gli volteggia intorno in senso inverso. Occhi chiusi, traballa. Binari rossi volano via nello spazio. Stelle intorno a soli girano tutte in giro. Zanzarine fulgide danzano sul muro."
Ed e' con la madre che inconsciamente Stephen parla. Con la madre morta. Strano rapporto di Joyce con la madre: per affermare se stesso e il suo laicismo, si era rifiutato di inginocchiarsi e di pregare dinanzi alla madre morente, e la madre morente lo aveva supplicato di inginocchiarsi e pregare per lei.
Un amore, alla fine, sciupato da quel tradimento.
E con l'amore tradito, un lungo senso di colpa: sin dall'inizio dell' Ulysses, sin dal primo episodio ambientato nella torre di Sandycove.
Mentre Buck Mulligan si rade, Joyce-Stephen guarda il mare e l'immagine dell'acqua del mare si confonde con quella del vomito della madre.
Ma quale la parola per un laico come Stephen?
Fuori dal bordello continua la vita vera - "Bloom liberò Stephen dalla maggior parte dei trucioli e gli porse cappello e bastone e in genere lo rimise in piedi alla maniera del buon Samaritano".
Il richiamo alla parabola evangelica ha un suo significato. Mr. Bloom e Stephen si aiutano, entrambi sono disponibili all'incontro: perché la loro patria è la strada, perché non hanno mete, perché dell'andar vagando hanno fatto il proprio stile di vita.
Nomadi come il buon Samaritano, che si ferma ad aiutare colui che sta per morire bastonato dai ladri, a differenza del sacerdote e del levita che hanno invece mete precise da raggiungere. Come il buon Samaritano, pronti a dare, non a chiedere. Pieni d'amore e alla ricerca dell'amore. Pieni d'amore, anche senza l'amore degli altri.
Ma che importa?
Posseggono la parola, che li assiste nella vita, che gli consente di frequentare il bordello di Bella Cohen, di trasformarsi in porci e poi di riacquistare sembianze umane   lasciando che l'inconscio ricordi o rimuova l'amore desiderato.
E però, forse per questo, un amore senza fine, che non ha oggetto su cui appuntarsi. E consumarsi.

[14.01.2012]





martedì 19 febbraio 2013

postilla ex-post [poi cancellato]

ph Linda Wride


Il post che ho pubblicato in prima serata l'ho fatto cadere così, come una foglia a terra.  Per decoro, per saggezza, per profonda consapevolezza che certe persone è bene lasciarle lì, nei loro versi, nelle loro parole, nel loro mondo.  Il silenzio e la gioia sono gli strumenti migliori per chetare certi animi.   
Credo che in quel loro tentativo di ostacolare  il prossimo con menzogne e denigrazioni ci siano fattori che implicano ripicche ed una volontà di ferire. Chi fa del male, è una zavorra, Nietzsche li chiama i nani dell'esistenza, coloro che salgono sulle spalle dei giganti per sembrare più alti.
A modo mio, credo che le persone si conoscono in base alle loro altezze spirituali, in senso hegeliano.  Ecco: ci sono coscienze infelici, e coscienze che camminano verso lo spirito. 
L'importante è non perdersi di vista, e non prestare il fianco oltremodo a chi impedisce il decollo, il momento dell'ascensione.
L'aurora esiste, al di là di tutto ciò!
PB









il manifesto della coscienza (ottobre 2011)


Mi metto a scrivere il tuo nome
con lettere di pasta.
Nel piatto, la zuppa si raffredda,
e piegati sul tavolo tutti contemplano
questo romantico lavoro.
Sfortunatamente manca una lettera,
una sola lettera per finire il tuo nome!
- Stai sognando? Guarda che la zuppa si raffredda!
Io stavo sognando…
E c’é un manifesto giallo in tutte le coscienze:
“ È proibito sognare in questo paese.”

Carlos Drummond De Andrade



domenica 17 febbraio 2013



Sshhhushsofsweetswooningotesonlaguidlutepickdoutpaistakingonpiano
yellowingkeyssormoremydovemyloveawaygravediewhydoleavealone
Begin!
[from Joycean Chamber Music]

|enjoy the silence|






giovedì 14 febbraio 2013

il canto della sirena sostiene


Alba pisana

Quando un giorno ti lascia,
Pensi all’altro che spunta.
È sempre pieno di promesse il nascere
Sebbene sia straziante
E l’esperienza d’ogni giorno insegni
Che nel legarsi, sciogliersi o durare
Non sono i giorni se non vago fumo.

G/Ungaretti, Ultimi cori per la terra promessa



mercoledì 13 febbraio 2013

strike dance rise




Mi hai inventata materia

corpo

sostanza inquinante

da smaltire

Demolendo neuroni

flussi ematici

ossigeno

nel tuo convulso

e ristretto

Ego

Ma so rigenerarmi

perché_________mi nutro

mi disseto | CombattoCadoMiRialzo |

del mio

IO

PB




lunedì 11 febbraio 2013

the castle of otranto


Rosso-Tramonto sul Castello di Otranto

[La felicita' e' un luogo in cui fa buio presto]


Nero-Notte sul Castello di Otranto

Foto scattate goticamente pensando ad 
Horace Walpole



ph Francesca Woodman

Sul mio sito sospensioni | di altro di me il mio omaggio a Francesca Woodman





pensiero di dicembre | ascoltami [revised]




pensiero di dicembre|scritto al volo|senza ali

Quanto li ho amati quei pensieri fatti di carne
quelle parole trasudanti canti
quale entusiasmo!
e se scrivo questi frammenti d’anima
è solo per me e non per altra folla
ignara del mondo intorno e dentro

cuore e neuroni
diventano amalgama di universo
ma devo pur difendermi
da attacchi e affondi e schiaffi
e spade infuocate sempre pronte
a squarciarmi il  petto
a graffiarmi la gola
|in questi giorni di gelo
incandescenze dei tuoi imperfetti segni|

(Dicembre 2012)



domenica 10 febbraio 2013

SPEZZARE LE BARRIERE DEL SILENZIO | contro qualsiasi forma di violenza | dalla parte delle donne


Ginevra Joyceline in joyciana fluidità
e
Helena Cherubini musicalmente elaborando

presenteranno qui il loro

Romanzando ai tempi del web
|tragicomicità in corso|
ovvero come evitare di farsi prendere per i fondelli
da maschilisti pronti ad 'usare' la donna
e poi denigrarla|diffamarla con le loro assurde menzogne
(contro l'abuso - intellettuale  fisico psicologico emotivo - maschilistico,
 contro ogni forma di violenza, contro chi impedisce il decollo intellettivo
contro la falsa manipolazione dell' "altro" in Levinàs[ian] senso )










Tutto l'amore che c'è




Incontro
a Gennaro, Pino, Isabella

senza più albe più tramonti
alla stazione ritrovarsi
vivere il giorno pieno
piluccando, una dopo l'altra,
il viavai delle speranze
nostre, che saranno

Daniela Marcheschi, da Tutto l'Amore che c'è, Einaudi Ragazzi, 1993, p. 82





ricognizione | Guillaume Apollinaire



Al limite dell'orizzonte impallidisce
Una sola crepuscolare betulla
Dove fugge la misura angolare
Dal cuore all'anima alla ragione.
L'azzurro galoppo dei ricordi lontani
Traversa i lillà degli occhi.
E i cannoni dell'indolenza
I miei sogni sparano verso i cieli.



martedì 5 febbraio 2013

sogno-non-sogno




Una piccola goccia che cade in un recipiente - hai detto - ma sarà una goccia memorabile, ancor di più di tanti altri nostri baci a non finire! Ora torno al mio dovere, tecno-traduzioni  di ingegneria spaziale (con la mia luna!) e architettura (con la mia laurea!). Però l' architettura l'adoro! così come il design d'autore, con i suoi grandi maestri Castiglioni, Mari, Sapper.  Da bambina sognavo di fare l'Architetto! Chissà...forse potrei ancora diventarlo! stavo pensando anche alla possibilità di usare queste mie competenze, trasformando una fredda specifica tecnica in una bella e calda prosa poetica!...chissà che ne verrebbe fuori! Sorrido.  
Pian piano potremmo creare tante belle cose...Tommy è un grande "faber" in arte e parola,  un guerriero della creazione artistica, un "miles faber" direbbero i nostri antichi padri latini.  Io sono una creativa, un terremoto di carne, sempre in movimento, sempre alla ricerca del bello, dell'innovativo, esultante ed esaltante!
J'adore!...il che vuol dire tutto...amore, bene e bellezza! 

................e poi all'improvviso ho aperto gli occhi | stavo progettando un loaft  in auto-CAD... ah la vita!



domenica 3 febbraio 2013

Monologo per Cassandra




Stasera a Teatro ho assistito alla trasposizione del mito in chiave moderna.  La storia della profetessa inascoltata, Cassandra, figlia di Priamo.  Ottima performance del corpo di danza, intensi i movimenti dei  corpi espressione del loro sentire, il pulsare degli atti.  E poi lei, Cassandra, chiusa, ferita, inascoltata.  Per un attimo mi sono vestita dei suoi colori-non-colori... il nero, il buio, l'oblio.  
Il Dono. Dono nel quale Cassandra presagisce un pericolo ma rimane inascoltata.  Da lì  il lungo sonno.  La rinuncia. La profezia. La morte dell'agape. 
Il Tempo.  Il tempo  le dara' ragione.

Superlativa l' interpretazione poetica della Szymborska nel suo Monologo per Cassandra


Sono io, Cassandra
e questa è la mia città sotto le ceneri.
E questi i miei nastri e la verga di profeta.
E questa la mia testa piena di dubbi.

E' vero, sto trionfando.
I miei giusti presagi hanno acceso il cielo.
Solamente e profeti inascoltati
godono di simili viste.
Solo quelli partiti con il piede sbagliato,
e tutto poté compiersi tanto in fretta
come se mai fossero esistiti.

Ora rammento con chiarezza:
la gente al vedermi si fermava a metà.
Le risate morivano.
Le mani si scioglievano.
I bambini correvano dalle madri.
Non conoscevo neppure i loro effimeri nomi.
E quella canzoncina sulla foglia verde -
nessuno la finiva in mia presenza.

Li amavo.
Ma dall'alto.
Da sopra la vita.
Dal futuro. Dove è sempre vuoto
e nulla è più facile che vedere la morte.
Mi spiace che la mia voce fosse dura.
Guardatevi dall'alto delle stelle - gridavo -
guardatevi dall'alto delle stelle.
Sentivano e abbassavano gli occhi.

Vivevano nella vita.
Permeati da un grande vento.
Con sorti già decise.

Fin dalla nascita in corpi da commiato.
Ma c'era in loro un'umida speranza.
una fiammella nutrita del proprio luccichio.
Loro sapevano cos'è davvero un istante,
oh, almeno uno, uno qualunque
prima di -

E' andata come dicevo io.
Solo che non ne viene nulla.
E questa è la mia veste bruciacchiata.
E questo il mio ciarpame di profeta.
E questo il mio viso stravolto.
Un viso che non sapeva di poter esser bello.

Wislawa Szymborska



30.IV.2012



Michelangelo Merisi detto il Caravaggio
Maddalena



I trentatré nomi di Dio di Marguerite Yourcenar




Ieri, mentre mettevo ordine nella mia libreria,  mi è capitato tra le mani questo minuscolo libro di versi che la Yourcenar scrisse prima della morte. Mi ero quasi dimenticata di averlo e riscoprirlo è stato  un' illuminazione, un'epifania che ha reso meno ovattata questa giornata  piovigginosa di inizio febbraio. Ancora.  

1. Mare al mattino

2. Rumore dalla     
sorgente nelle    
rocce sulle pareti di    
pietra

3. Vento di mare    
a notte    
su un'isola

4. Ape

5. Volo triangolare     
dei cigni

6. Agnello appena nato    
bell'ariete    
pecora.

7. Il tenero muso     
della vacca      
il muso selvaggio    
del toro

8. Il muso    
paziente     
del bue

9. La fiamma rossa    
nel focolare.

10. Il cammello    
zoppo     
che attraversò
la grande città  
affollata     
andando verso la morte.

11. L'erba   
L'odore dell'erba.

12. (qui la Yourcenar tracciò sul manoscritto, a penna, delle stelline, come asterischi)

13. La buona terra    
La sabbia e    
la cenere

14. L'airone che ha     
atteso tutta     
la notte, intirizzito,
e che trova     
di che placare la sua     
fame all'aurora

15. Il piccolo pesce     
che agonizza nella gola dell'    
airone

16. La mano    
che entra in     
contatto     
con le cose

17. La pelle - tutta la superficie del corpo

18. Lo sguardo    
e quello che guarda

19. Le nove porte      
della     
percezione

20. Il torso    
umano

21. Il suono di una viola o di un lauto indigeno

22. Un sorso   
di una bevanda   
fredda   
o calda

23. Il pane

24. I fiori   
che spuntano   
dalla terra  
a primavera

25. Sonno in un letto

26. Un cieco che canta     
e un bambino invalido

27. Cavallo che    
corre    
libero

28. La donna  
-- dei  -- 
cani

29. I cammelli   
che si abbeverano   
con i loro piccoli
nel difficile wadi

30. Sole nascente   
sopra un lago   
ancora mezzo   
ghiacciato

31. Il lampo   
silenzioso   
Il tuono   
fragoroso

32. Il silenzio    
fra due amici

33. La voce che viene    
da est,   
entra dall'orecchio   
destro
e insegna un canto.










sabato 2 febbraio 2013

Pivano & Beat Generation: a Parigi, di Fernanda Pivano

Pivano, Orlovsky, Ginsberg, Corso - Parigi1961

Ginsberg lo incontrai a Parigi sei anni dopo. Era fermo con Peter Orlovsky e Gregory Corso davanti al Café Le Conti, sotto la scritta dell’Hotel Petit Trianon, dove la rue Dauphine si incrocia con la rue Mazarine, la rue de Buci e la rue Saint-André des Arts. Sottsass e io eravamo andati in rue Dauphine a portare una scatola di marron glacé ad Alice B. Toklas e stavamo tornando in albergo quando dall’altra parte della strada Gregory Corso, che era stato di recente nostro ospite a Milano, si mise a gridare perché ci aveva riconosciuti. Ginsberg, con il quale avevo scambiato molte lettere, non mi aveva mai vista e mi guardava sorpreso; poi mi venne incontro con quel suo sorriso paziente.
Fernanda Pivano con Allen Ginsberg a Parigi, nel 1961
Cinque minuti dopo ci trovammo immersi fuori del tempo e dello spazio, e così restammo per tutti i giorni che rimanemmo a Parigi con loro. Dimenticammo gli appuntamenti, gli impegni più o meno professionali, i programmi che ci eravamo fatti, e passammo ore indimenticabili a passeggiare sui Lungosenna o nel Louvre, nei giardini pubblici o sui boulevard, frugando negli scaffali della libreria La Hune in cerca di riviste così esoteriche da essere introvabili o mettendo sottosopra negozietti in cerca di un riduttore per rasoi elettrici.
Ogni tanto andavamo a mangiare qualcosa e per lo più trovavamo i ristoranti chiusi. Una volta ne trovammo aperto uno algerino ed entrammo in cerca di couscous e a bere il tè alla menta, seduti su panche di legno basse intorno a un tavolo ancora più basso; poi andammo a fumare nella camera di Ginsberg, nel vecchio albergo di rue Gît-le-Coeur, non ancora banalizzato dal risanamento nazionalistico di Parigi: aveva i muri scrostati, le scale a chiocciola sulle quali davano microscopici gabinetti senza finestra, ballatoi senza luce sui quali si aprivano stanze nerastre odorose di marijuana, spesso rintronanti di qualche disco suonato a tutto volume.
Era l’albergo in cui ha vissuto a lungo William Burroughs e dove nel secondo dopoguerra andavano gli americani ribelli di passaggio a Parigi: costava pochi franchi e le camere erano praticamente in comune. A qualunque porta si bussasse apriva qualcuno che si conosceva o comunque conosceva la persona che si cercava. Una volta ero andata a salutare Kerouac e la padrona dell’albergo mi aveva dato il numero della stanza. Ero salita e aveva aperto uno spagnolo. No, mi aveva detto, Kerouac era a Londra, ora in quella camera dormiva Gregory Corso. Ma lei non è Gregory Corso, avevo risposto. E lui, sbalordito: «Non ho mica detto di essere Gregory Corso».
Dopo pochi minuti che si era in quell’atmosfera ci si sentiva totalmente, irrimediabilmente cretini. Le nostre impalcature logiche, le nostre sovrastrutture sociali, i nostri puntelli morali di cartapesta, il nostro presuntuoso fondale di obbedienza civile diventavano inconsistenti come caricature e labili come incubi surrealisti. Ci si accorgeva che la realtà era soltanto quella, fuori del tempo e dello spazio, basata sulla verità dei pensieri e dei bisogni.
Fernanda Pivano con Orlovsky, Ginsberg, Corso (Parigi 1961)
Quando salimmo con Ginsberg nella sua camera ci trovammo alcuni gatti e due ragazzi intenti ad ascoltare un disco. Stavano aspettando Gregory Corso per andare a un party nella camera di sotto. Naturalmente Corso quando arrivò disse che non aveva voglia di andare a nessun party, ma si lasciò trascinare via finché a metà strada si aprì un’altra porta e una ragazza si affacciò per chiedergli di entrare a guardare un quadro. Corso entrò e i due ragazzi tornarono da noi e domandarono a Orlovsky di andare al party al posto di Corso. Orlovsky rispose che doveva andare a comprare le arance. Intanto aveva aperto un armadio in cerca di sigarette che avrebbero dovuto essere nella tasca di un certo maglione rosso, ma sul maglione rosso trovò invece un gatto addormentato. Incominciarono le operazioni per spostare il gatto senza fargli male e senza svegliarlo; poi Ginsberg aprì la finestra, prese una bottiglia di latte dal davanzale e ne versò un poco in un piattino. In pochi secondi tutti i gatti dell’albergo, che, era chiaro, stavano sopravvivendo con il latte di Ginsberg, si raccolsero nella camera; ma piano piano si riuscì a mandarli fuori e a chiudere la porta. Mentre Orlovsky cercava le sigarette e Ginsberg metteva a pieno volume I Feel so Good di Ray Charles per farmelo conoscere, tornò Gregory Corso con la faccia più nera delle sue facce più nere, dicendo una parola irripetibile, e si accasciò sul letto. Stava facendo un esperimento, mi disse Orlovsky sottovoce; bisognava lasciarlo in pace perché era passato un certo numero di ore e l’esperimento gli dava molta nausea.
Quando finalmente Orlovsky trovò le sigarette, Ginsberg tirò un paio di boccate e poi decise che non aveva più voglia di fumare, aveva voglia di uscire, «Let’s go». Dove andiamo?, chiese qualcuno. Ginsberg gli mise una mano sulla spalla e gli disse sottovoce: «Let’s see». Così ci avviammo in rue Gît-le-Coeur verso il Lungosenna.
Mentre raccontavo a Ginsberg la storia della strada e di Fred Sidès (forse ex amante di Isadora Duncan) che l’aveva raccontata a me, entrammo in una traversa della via passando da un vicolo all’altro, fermandoci a guardare insegne e cartelloni. Arrivammo sul Lungosenna e dal ponte vedemmo, seduti sui gradini, un gruppo di arabi che cantavano canzoni del loro paese. Erano nenie un po’ languide, pochissimo allegre. Restammo ad ascoltare finché qualcuno disse: «Let’s go», e ci avviammo verso il prossimo ponte.
Sul prossimo ponte trovammo una gran folla. Sotto, sulla banchina del fiume, c’erano due ragazzi americani che cantavano accompagnandosi con la chitarra forse (o forse neanche) cercando di imitare Elvis Presley. Ogni tanto smettevano e giravano chiedendo un po’ di soldi, guardavano in su verso la folla e facevano sorridendo grandi segni perché anche dal ponte buttassero soldi. Ne avrebbe buttati anche Ginsberg, ma si accorse che Corso si era fermato a un carretto e si stava facendo dare un gelato e naturalmente Corso soldi per il gelato non ne aveva e Ginsberg andò a pagare per lui.
Attraversammo il ponte. Sull’altro Lungosenna Ginsberg intavolò una lunga conversazione con un suonatore di organetto, facendosi spiegare come funzionava, informandosi se i passanti si divertivano ancora ad ascoltarlo e domandandogli dove si potevano comprare organetti. Il suonatore era raggiante. Disse che in vita sua nessuno aveva mai mostrato tanto interesse per il suo organetto. Chi era quel bravo signore gentile?, mi chiese. Doveva certo essere un artista, vero?
Gli risposi di sì, che era un artista, uno di quelli veri, e cercai di dargli qualche spicciolo, che il suonatore si rifiutò di accettare. Quando raggiunsi Ginsberg lo trovai immerso in una fitta conversazione con un uomo probabilmente un po’ matto che stava trasportando due pile di libri reggendole con le mani e tenendole ferme con il mento. Restammo un quarto d’ora ad ascoltare il dialogo fra lui e Ginsberg; un dialogo dal quale venne fuori la storia di una dei tanti milioni di vite incominciate e finite senza che si capisca bene perché siano cominciate e perché siano finite.
Quando ci avviammo verso il Louvre, Ginsberg era assorto. Qualcuno provò a parlargli, gli raccontarono di un tale, destinato a raggiungere una certa notorietà iconoclasta, che aveva come unica ambizione quella di venir pubblicato sulla «Evergreen Review».
«Che strana ambizione», disse con uno di quei suoi sorrisi melanconici.
Poi girammo per le sale del Louvre e mi fece vedere i quadri che erano piaciuti a questo o a quel poeta, soprattutto a Kerouac. Quando gli chiesi quali piacevano a lui, proprio a lui, sorrise senza rispondere e mi prese sottobraccio. Non ebbe neanche bisogno di dirmelo, il suo «Let’s go».
Andammo a sederci al Vert Galant, sotto il Pont Neuf. Eravamo tutti un po’ stanchi e gli alberi freschi del giardino, così in mezzo al fiume, fecero ancora una volta il loro effetto antico. Un tale seduto su una panchina fissava nel vuoto; Ginsberg lo guardò da lontano e continuò a guardarlo come se riconoscesse un amico. Avevamo ricominciato a parlare di «lavoro»: Kerouac e Burroughs, Ferlinghetti e Hazelwood, Donald Allen e Barney Rosset, la Evergreen e la Auerhahn, nomi ancora insoliti in Europa ma per Ginsberg vecchi come la sua storia.
Restammo su quella panca finché qualcuno disse: «Let’s go». Questa volta ci trovammo a mangiare uno di quegli sfilatini al prosciutto come fanno o facevano a Parigi, in un vecchio caffè davanti ai Deux Magots, che poi è stato demolito e sostituito da un drugstore all’americana. Cominciarono le birre, cominciarono file di ragazzi di tutte le parti del mondo che riconoscevano Ginsberg e venivano a salutarlo, e passò la sera; poi andammo a dormire, good night, ci vediamo domani a Saint-Germain, senza dire l’ora, senza dire dove.
Infatti l’indomani ci vedemmo a Saint-Germain, tutti indaffarati, ciascuno con qualcosa che avrebbe dovuto fare e non aveva fatto ma tanto si poteva benissimo farlo domani o magari dopodomani, «Let’s go, let’s go». Sedemmo sulla terrasse di un caffè e lì venne Maurice Girodias, l’editore di William Burroughs, e piano piano intorno al tavolo si raccolse una piccola folla di gente che conosceva Ginsberg o diceva di conoscerlo o desiderava conoscerlo. In pochi minuti il tavolino fu coperto di manoscritti che volevano un suo giudizio. «Sure», rispondeva a tutti; e noi sapevamo che quella notte invece di dormire Ginsberg avrebbe letto uno per uno tutti quei manoscritti per poter dire una parola di consiglio a ciascuno: per dirgli che cosa non andava in quei versi o magari per dirgli di non lasciarsi spaventare.
Poi andammo a mangiare, e poi andammo in albergo, nel nostro albergo molto borghese («È un po’ triste, vero?» disse soltanto Ginsberg), e mentre Corso e Orlovsky stavano sdraiati sul letto e Sottsass continuava a fotografarli, Ginsberg sedette a un tavolino subito ingombro di libri, pezzetti di carta, bicchieri, portacenere, matite e mi corresse il primo abbozzo dell’antologia di poeti che avevo in mente di fare e più tardi pubblicai da Feltrinelli vincendo a fatica le resistenze di un direttore editoriale ostile.
«Guardalo, ma guardalo», diceva ogni tanto Corso a Orlovsky scrollando la testa e Orlovsky sorrideva. Lavorammo per un paio d’ore. Poi fui io ad avere pietà e a dire il solito «Let’s go». Fuori cadeva una pioggerella fine fine, con un’aria frizzante in quella nebbiolina che «fa» Parigi. Ci avviammo a piedi, senza ombrello, verso i soliti caffè. Intanto Orlovsky aveva comprato qualche arancia, quelle che avrebbe voluto comprare il giorno prima, e per trasportarle le mise nel suo cappellone di pelliccia, che in genere portava con sapiente civetteria sui capelli ancora biondi, ancora folti, ancora molto lunghi e un po’ spettinati; ma presto il cappello se lo rimise in testa, perché via via che qualcuno ci fermava Orlovsky gli offriva un’arancia, senza che a nessuno venisse in mente che poi le arance sarebbero terminate e i negozi sarebbero stati chiusi. Quella sera finimmo per cenare verso mezzanotte, tanto eravamo busy con tutta quella gente sempre intorno.
Avevo al dito un anello nel quale Sottsass aveva fatto montare un sigillo miceneo che avevamo comprato sottobanco ad Atene. Quel giorno l’antiquario aveva abbassato la saracinesca (per un momento avevamo pensato che volesse rubarci le macchine fotografiche), poi aveva tirato fuori un cassetto dal doppio fondo (come quelli che usavano i Carbonari per nascondere gli indirizzi dei compagni, mi aveva spiegato mia nonna che ne aveva uno in un sécretaire) e da una busta lacera aveva tolto uno spago molto sporco in cui erano infilati tre di questi sigilli. Avevamo pochissimi soldi, come sempre, e ci venne il sospetto che ci stesse imbrogliando; così ne avevamo comprato soltanto uno: erano di lava nera e raffiguravano un cervo rampante. L’antiquario me li mostrò premendoli su una gomma da cancellare inumidita con il fondo del caffè di una tazzina che aveva fatto portare dal bar lì vicino. Sembrava spaventato, ci disse di stare attenti, di non far vedere il sigillo alla frontiera perché gli avremmo procurato un mucchio di noie: non era permesso far uscire dal paese antichità da museo. Eravamo così sicuri di essere nel mezzo di un imbroglio che lo ascoltammo più che altro per divertimento, ma più tardi vedemmo dei sigilli simili in una vetrina del Museo nazionale.
Quando Gregory Corso prese in mano il mio anello e mi chiese dove avevo trovato il sigillo gli raccontai questa storia. E lui senza dire niente sorrise e si sfilò dal collo lo stesso spago sudicio che avevamo visto in quel cassetto segreto: il secondo dei tre sigilli lo aveva preso lui un giorno che qualcuno, ad Atene, aveva voluto fargli un regalo.

Fernanda Pivano, da Altri amici, altri scrittori, Mondadori, 1998