martedì 17 gennaio 2012

Psico Campana. "Ladri, insulsi, lecchini". Un poeta contro i letterati

"Era matto e solo matto, è stato scambiato da molti per un vero poeta". Questo giudizio senza appello su Dino Campana e sulla sua poesia è firmato Umberto Saba. Piero Santi, uno scrittore fiorentino che lavorava alla radio, una volta con Saba ci litigò. Campana, gli disse, «è il maggior poeta italiano moderno». Era un colpo basso, una classifica improvvisata per umiliare Saba. Si sa che i poeti o si amano molto o non si amano affatto. Campana, per esempio, detestava Palazzeschi: «Questa lettera è insulsa come una poesia di Palazzeschi», scrisse al giornalista Aldo Orlandi nel novembre del '17, ma già altre volte era stato velenoso. In una letteraccia del maggio 1913 scritta su carta da pacchi color lilla indirizzata a Papini dopo la lettura di un numero di Lacerba (la rivista che Papini dirigeva) lo invitava a licenziare l'intera redazione. «Il vostro giornale è monotono, molto monotono: l'immancabile Palazzeschi, il fatale Soffici» e lo invitava a chiedere qualcosa a Marinetti «che è un ingegno superiore» non senza avergli ricordato di aver inviato al giornale un suo «bozzetto meraviglioso di un'arte veramente nuova» cestinato certo per invidia. Ma poche righe prima aveva scritto: «La vostra speranza sia: fondare l'alta coltura italiana. Fondarla sul violento groviglio delle forze delle città elettriche, sul groviglio delle selvagge anime del popolo, del vero popolo, non di una massa di lecchini, finocchi, camerieri, cantastorie, saltimbanchi, giornalisti e filosofi come siete a Firenze». Del resto scrivendo a Emilio Cecchi nel marzo del 1916, Campana riassume la vicenda della perdita del prezioso manoscritto, per cui aveva minacciato di accoltellare i responsabili, e dichiara: «Posso provare che Papini e Soffici sono ladri spie venduti e vigliacchi soprattutto. Questo l'ho scritto a loro 4 o 5 volte e parlando di loro ordinariamente non uso mai altri termini». E Cecchi replica: «Chi ha avvicinato Papini è sempre rimasto colpito... dalla commercialità e dal cinismo del suo tratto».

Non le mandava a dire Dino Campana. Ma bisogna leggere il Carteggio 1903-1931 ora pubblicato da Polistampa col titolo Lettere di un povero diavolo  per rendersi conto
dell'intelligenza e della irrequietezza del poeta di Marradi. Un caso davvero singolare, che il curatore del volume, Gabriel Cacho Millet, studia da oltre trent'anni senza nulla trascurare, neppure il segnale o l'interlocutore più remoto, nella speranza di aggiungere un tassello ad una biografia tormentata e straordinaria, al punto da sembrare, certe volte, un'invenzione decadente. D'altra parte Carlo Pariani, lo psichiatra che ebbe in cura Campana nel manicomio di Castel Pulci fu indotto anche lui a scrivere, come si sa, una biografia "non romanzata" del poeta, frutto dei colloqui avuti con il suo non facile paziente, che del resto soffriva da tempo di crisi nervose e di eccitazione. Scrivendo al direttore del manicomio di Imola, dove Campana era stato ricoverato nel 1906, il padre, il maestro elementare Giovanni Campana, dopo aver ricordato d'essere ricorso anche lui alle sue cure per disturbi nevrastenici, raccontava che il figlio Dino aveva cominciato fin dal 1900 «a dare prova d'impulsività brutale, morbosa» specialmente nei confronti della madre. Il direttore del manicomio, Raffaele Brugia, rispose al padre, dicendogli che dopo due mesi di assidua osservazione gli confermava che Dino è "uno psicopatico grave" e tuttavia acconsentiva a dimetterlo su richiesta del padre stesso che però doveva assumersi ogni responsabilità su quello che poteva accadere. Molte di queste lettere si conoscevano e mancano qui le lettere del bollente carteggio d'amore con Sibilla Aleramo, più volte ristampato. Ma vi sono , per esempio, alcune lettere inedite degli anni Cinquanta di Manlio Campana, il fratello minore di Dino, dalle quali veniamo a sapere che quando Dino era andato in Argentina, doveva lavorare presso una farmacia, essendo studente del quarto anno in quella disciplina. Appena sbarcato, però, fece perdere le sue tracce e il farmacista scrisse al padre di Dino, rammaricandosi dell'accaduto. Una prova in più che testimonia la veridicità di quel viaggio che a qualcuno (per esempio Ungaretti) era sembrato un'invenzione.

Le lettere consentono anche di seguire l'attività letteraria di Dino, presto entrato in contatto con Mario Novaro, direttore della Riviera Ligure, una rivista liberty nata in seno all'industria dell'olio Sasso e da foglio pubblicitario presto trasformata in rivista di letteratura. Rispetto a quasi tutte le riviste italiane, la Riviera aveva un pregio: pagava e dunque poté presto vantare collaboratori illustri. Ma Novaro, che era anche lui poeta, come il fratello Angiolo Silvio, era aperto alle esperienze dei giovani e dunque Campana approdò su quelle pagine, scrivendo anche lettere al signor Geribò. Geribò era un'invenzione di Novaro: per togliersi d'impiccio s'era inventato un amministratore con questo nome, ma ad un certo punto dichiarò che forse era meglio farlo morire. A Novaro, Campana chiedeva anche aiuto per andarsene in Francia. L'andar via, l'altrove sarà sempre un segno distintivo del vagabondare del poeta: lo troviamo a Genova, in Svizzera, in Francia, in Argentina... Sapeva diverse lingue e in più occasioni si era offerto come traduttore. Non ebbe, neppure all'estero, vita facile: fu arrestato, messo in carcere e in manicomio.

C'è il rischio, qualcuno obietterà, che tutto questo materiale biografico faccia prevalere il personaggio Campana sul poeta Campana, ma è un rischio che ormai corriamo da un secolo buono. Parecchi anni fa, era il 1984, Sebastiano Vassalli scrisse un romanzo, La notte della cometa, ispirato a Dino Campana, «il mio babbo matto». «Sono quattordici anni», scriveva Vassalli, «che ricerco la verità della vita di Dino Campana». Compito non facile: e lo sanno i suoi lettori. Nel 1960 Enrico Falqui pubblicò presso Vallecchi gli inediti del Taccuinetto faentino che erano stati ritrovati dal fratello Manlio e trascritti da Domenico De Robertis. All'inizio degli anni Settanta dalla carte Soffici saltò fuori il famoso manoscritto dei Canti Orfici perduto mezzo secolo prima, poi ricostruito a memoria e variato da Campana stesso per la pubblicazione. Insomma, con Campana il conto è sempre aperto e ogni volta lo si rilegge con doloroso piacere.
Paolo Mauri, la Repubblica, 07/12/2011


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