Pivano, Orlovsky, Ginsberg, Corso - Parigi1961
Ginsberg lo incontrai a Parigi sei anni dopo. Era fermo con Peter Orlovsky e Gregory Corso davanti al Café Le Conti, sotto la scritta dell’Hotel Petit Trianon, dove la rue Dauphine si incrocia con la rue Mazarine, la rue de Buci e la rue Saint-André des Arts. Sottsass e io eravamo andati in rue Dauphine a portare una scatola di marron glacé ad Alice B. Toklas e stavamo tornando in albergo quando dall’altra parte della strada Gregory Corso, che era stato di recente nostro ospite a Milano, si mise a gridare perché ci aveva riconosciuti. Ginsberg, con il quale avevo scambiato molte lettere, non mi aveva mai vista e mi guardava sorpreso; poi mi venne incontro con quel suo sorriso paziente.
Fernanda Pivano con Allen Ginsberg a Parigi, nel 1961
Cinque minuti dopo ci trovammo immersi fuori del tempo e dello spazio, e così restammo per tutti i giorni che rimanemmo a Parigi con loro. Dimenticammo gli appuntamenti, gli impegni più o meno professionali, i programmi che ci eravamo fatti, e passammo ore indimenticabili a passeggiare sui Lungosenna o nel Louvre, nei giardini pubblici o sui boulevard, frugando negli scaffali della libreria La Hune in cerca di riviste così esoteriche da essere introvabili o mettendo sottosopra negozietti in cerca di un riduttore per rasoi elettrici.
Ogni tanto andavamo a mangiare qualcosa e per lo più trovavamo i ristoranti chiusi. Una volta ne trovammo aperto uno algerino ed entrammo in cerca di couscous e a bere il tè alla menta, seduti su panche di legno basse intorno a un tavolo ancora più basso; poi andammo a fumare nella camera di Ginsberg, nel vecchio albergo di rue Gît-le-Coeur, non ancora banalizzato dal risanamento nazionalistico di Parigi: aveva i muri scrostati, le scale a chiocciola sulle quali davano microscopici gabinetti senza finestra, ballatoi senza luce sui quali si aprivano stanze nerastre odorose di marijuana, spesso rintronanti di qualche disco suonato a tutto volume.
Era l’albergo in cui ha vissuto a lungo William Burroughs e dove nel secondo dopoguerra andavano gli americani ribelli di passaggio a Parigi: costava pochi franchi e le camere erano praticamente in comune. A qualunque porta si bussasse apriva qualcuno che si conosceva o comunque conosceva la persona che si cercava. Una volta ero andata a salutare Kerouac e la padrona dell’albergo mi aveva dato il numero della stanza. Ero salita e aveva aperto uno spagnolo. No, mi aveva detto, Kerouac era a Londra, ora in quella camera dormiva Gregory Corso. Ma lei non è Gregory Corso, avevo risposto. E lui, sbalordito: «Non ho mica detto di essere Gregory Corso».
Dopo pochi minuti che si era in quell’atmosfera ci si sentiva totalmente, irrimediabilmente cretini. Le nostre impalcature logiche, le nostre sovrastrutture sociali, i nostri puntelli morali di cartapesta, il nostro presuntuoso fondale di obbedienza civile diventavano inconsistenti come caricature e labili come incubi surrealisti. Ci si accorgeva che la realtà era soltanto quella, fuori del tempo e dello spazio, basata sulla verità dei pensieri e dei bisogni.
Fernanda Pivano con Orlovsky, Ginsberg, Corso (Parigi 1961)
Quando salimmo con Ginsberg nella sua camera ci trovammo alcuni gatti e due ragazzi intenti ad ascoltare un disco. Stavano aspettando Gregory Corso per andare a un party nella camera di sotto. Naturalmente Corso quando arrivò disse che non aveva voglia di andare a nessun party, ma si lasciò trascinare via finché a metà strada si aprì un’altra porta e una ragazza si affacciò per chiedergli di entrare a guardare un quadro. Corso entrò e i due ragazzi tornarono da noi e domandarono a Orlovsky di andare al party al posto di Corso. Orlovsky rispose che doveva andare a comprare le arance. Intanto aveva aperto un armadio in cerca di sigarette che avrebbero dovuto essere nella tasca di un certo maglione rosso, ma sul maglione rosso trovò invece un gatto addormentato. Incominciarono le operazioni per spostare il gatto senza fargli male e senza svegliarlo; poi Ginsberg aprì la finestra, prese una bottiglia di latte dal davanzale e ne versò un poco in un piattino. In pochi secondi tutti i gatti dell’albergo, che, era chiaro, stavano sopravvivendo con il latte di Ginsberg, si raccolsero nella camera; ma piano piano si riuscì a mandarli fuori e a chiudere la porta. Mentre Orlovsky cercava le sigarette e Ginsberg metteva a pieno volume I Feel so Good di Ray Charles per farmelo conoscere, tornò Gregory Corso con la faccia più nera delle sue facce più nere, dicendo una parola irripetibile, e si accasciò sul letto. Stava facendo un esperimento, mi disse Orlovsky sottovoce; bisognava lasciarlo in pace perché era passato un certo numero di ore e l’esperimento gli dava molta nausea.
Quando finalmente Orlovsky trovò le sigarette, Ginsberg tirò un paio di boccate e poi decise che non aveva più voglia di fumare, aveva voglia di uscire, «Let’s go». Dove andiamo?, chiese qualcuno. Ginsberg gli mise una mano sulla spalla e gli disse sottovoce: «Let’s see». Così ci avviammo in rue Gît-le-Coeur verso il Lungosenna.
Mentre raccontavo a Ginsberg la storia della strada e di Fred Sidès (forse ex amante di Isadora Duncan) che l’aveva raccontata a me, entrammo in una traversa della via passando da un vicolo all’altro, fermandoci a guardare insegne e cartelloni. Arrivammo sul Lungosenna e dal ponte vedemmo, seduti sui gradini, un gruppo di arabi che cantavano canzoni del loro paese. Erano nenie un po’ languide, pochissimo allegre. Restammo ad ascoltare finché qualcuno disse: «Let’s go», e ci avviammo verso il prossimo ponte.
Sul prossimo ponte trovammo una gran folla. Sotto, sulla banchina del fiume, c’erano due ragazzi americani che cantavano accompagnandosi con la chitarra forse (o forse neanche) cercando di imitare Elvis Presley. Ogni tanto smettevano e giravano chiedendo un po’ di soldi, guardavano in su verso la folla e facevano sorridendo grandi segni perché anche dal ponte buttassero soldi. Ne avrebbe buttati anche Ginsberg, ma si accorse che Corso si era fermato a un carretto e si stava facendo dare un gelato e naturalmente Corso soldi per il gelato non ne aveva e Ginsberg andò a pagare per lui.
Attraversammo il ponte. Sull’altro Lungosenna Ginsberg intavolò una lunga conversazione con un suonatore di organetto, facendosi spiegare come funzionava, informandosi se i passanti si divertivano ancora ad ascoltarlo e domandandogli dove si potevano comprare organetti. Il suonatore era raggiante. Disse che in vita sua nessuno aveva mai mostrato tanto interesse per il suo organetto. Chi era quel bravo signore gentile?, mi chiese. Doveva certo essere un artista, vero?
Gli risposi di sì, che era un artista, uno di quelli veri, e cercai di dargli qualche spicciolo, che il suonatore si rifiutò di accettare. Quando raggiunsi Ginsberg lo trovai immerso in una fitta conversazione con un uomo probabilmente un po’ matto che stava trasportando due pile di libri reggendole con le mani e tenendole ferme con il mento. Restammo un quarto d’ora ad ascoltare il dialogo fra lui e Ginsberg; un dialogo dal quale venne fuori la storia di una dei tanti milioni di vite incominciate e finite senza che si capisca bene perché siano cominciate e perché siano finite.
Quando ci avviammo verso il Louvre, Ginsberg era assorto. Qualcuno provò a parlargli, gli raccontarono di un tale, destinato a raggiungere una certa notorietà iconoclasta, che aveva come unica ambizione quella di venir pubblicato sulla «Evergreen Review».
«Che strana ambizione», disse con uno di quei suoi sorrisi melanconici.
Poi girammo per le sale del Louvre e mi fece vedere i quadri che erano piaciuti a questo o a quel poeta, soprattutto a Kerouac. Quando gli chiesi quali piacevano a lui, proprio a lui, sorrise senza rispondere e mi prese sottobraccio. Non ebbe neanche bisogno di dirmelo, il suo «Let’s go».
Andammo a sederci al Vert Galant, sotto il Pont Neuf. Eravamo tutti un po’ stanchi e gli alberi freschi del giardino, così in mezzo al fiume, fecero ancora una volta il loro effetto antico. Un tale seduto su una panchina fissava nel vuoto; Ginsberg lo guardò da lontano e continuò a guardarlo come se riconoscesse un amico. Avevamo ricominciato a parlare di «lavoro»: Kerouac e Burroughs, Ferlinghetti e Hazelwood, Donald Allen e Barney Rosset, la Evergreen e la Auerhahn, nomi ancora insoliti in Europa ma per Ginsberg vecchi come la sua storia.
Restammo su quella panca finché qualcuno disse: «Let’s go». Questa volta ci trovammo a mangiare uno di quegli sfilatini al prosciutto come fanno o facevano a Parigi, in un vecchio caffè davanti ai Deux Magots, che poi è stato demolito e sostituito da un drugstore all’americana. Cominciarono le birre, cominciarono file di ragazzi di tutte le parti del mondo che riconoscevano Ginsberg e venivano a salutarlo, e passò la sera; poi andammo a dormire, good night, ci vediamo domani a Saint-Germain, senza dire l’ora, senza dire dove.
Infatti l’indomani ci vedemmo a Saint-Germain, tutti indaffarati, ciascuno con qualcosa che avrebbe dovuto fare e non aveva fatto ma tanto si poteva benissimo farlo domani o magari dopodomani, «Let’s go, let’s go». Sedemmo sulla terrasse di un caffè e lì venne Maurice Girodias, l’editore di William Burroughs, e piano piano intorno al tavolo si raccolse una piccola folla di gente che conosceva Ginsberg o diceva di conoscerlo o desiderava conoscerlo. In pochi minuti il tavolino fu coperto di manoscritti che volevano un suo giudizio. «Sure», rispondeva a tutti; e noi sapevamo che quella notte invece di dormire Ginsberg avrebbe letto uno per uno tutti quei manoscritti per poter dire una parola di consiglio a ciascuno: per dirgli che cosa non andava in quei versi o magari per dirgli di non lasciarsi spaventare.
Poi andammo a mangiare, e poi andammo in albergo, nel nostro albergo molto borghese («È un po’ triste, vero?» disse soltanto Ginsberg), e mentre Corso e Orlovsky stavano sdraiati sul letto e Sottsass continuava a fotografarli, Ginsberg sedette a un tavolino subito ingombro di libri, pezzetti di carta, bicchieri, portacenere, matite e mi corresse il primo abbozzo dell’antologia di poeti che avevo in mente di fare e più tardi pubblicai da Feltrinelli vincendo a fatica le resistenze di un direttore editoriale ostile.
«Guardalo, ma guardalo», diceva ogni tanto Corso a Orlovsky scrollando la testa e Orlovsky sorrideva. Lavorammo per un paio d’ore. Poi fui io ad avere pietà e a dire il solito «Let’s go». Fuori cadeva una pioggerella fine fine, con un’aria frizzante in quella nebbiolina che «fa» Parigi. Ci avviammo a piedi, senza ombrello, verso i soliti caffè. Intanto Orlovsky aveva comprato qualche arancia, quelle che avrebbe voluto comprare il giorno prima, e per trasportarle le mise nel suo cappellone di pelliccia, che in genere portava con sapiente civetteria sui capelli ancora biondi, ancora folti, ancora molto lunghi e un po’ spettinati; ma presto il cappello se lo rimise in testa, perché via via che qualcuno ci fermava Orlovsky gli offriva un’arancia, senza che a nessuno venisse in mente che poi le arance sarebbero terminate e i negozi sarebbero stati chiusi. Quella sera finimmo per cenare verso mezzanotte, tanto eravamo busy con tutta quella gente sempre intorno.
Avevo al dito un anello nel quale Sottsass aveva fatto montare un sigillo miceneo che avevamo comprato sottobanco ad Atene. Quel giorno l’antiquario aveva abbassato la saracinesca (per un momento avevamo pensato che volesse rubarci le macchine fotografiche), poi aveva tirato fuori un cassetto dal doppio fondo (come quelli che usavano i Carbonari per nascondere gli indirizzi dei compagni, mi aveva spiegato mia nonna che ne aveva uno in un sécretaire) e da una busta lacera aveva tolto uno spago molto sporco in cui erano infilati tre di questi sigilli. Avevamo pochissimi soldi, come sempre, e ci venne il sospetto che ci stesse imbrogliando; così ne avevamo comprato soltanto uno: erano di lava nera e raffiguravano un cervo rampante. L’antiquario me li mostrò premendoli su una gomma da cancellare inumidita con il fondo del caffè di una tazzina che aveva fatto portare dal bar lì vicino. Sembrava spaventato, ci disse di stare attenti, di non far vedere il sigillo alla frontiera perché gli avremmo procurato un mucchio di noie: non era permesso far uscire dal paese antichità da museo. Eravamo così sicuri di essere nel mezzo di un imbroglio che lo ascoltammo più che altro per divertimento, ma più tardi vedemmo dei sigilli simili in una vetrina del Museo nazionale.
Quando Gregory Corso prese in mano il mio anello e mi chiese dove avevo trovato il sigillo gli raccontai questa storia. E lui senza dire niente sorrise e si sfilò dal collo lo stesso spago sudicio che avevamo visto in quel cassetto segreto: il secondo dei tre sigilli lo aveva preso lui un giorno che qualcuno, ad Atene, aveva voluto fargli un regalo.
Fernanda Pivano, da Altri amici, altri scrittori, Mondadori, 1998